Indubbiamente la sovradiagnosi (diagnosi di carcinomi indolenti, spontaneamente non destinati a divenire sintomatici) è inevitabile nello screening oncologico. La sua rilevanza dipende da diverse condizioni: la prevalenza di cancri indolenti, l’anticipazione diagnostica (lead time) l’aggressività dello screening, l’aspettativa di vita in funzione della fascia di età.
Il sovratrattamento (trattamento delle lesioni sovradiagnosticate) accompagna quasi sempre la sovradiagnosi, sia per l’impossibilità di identificare i singoli casi di carcinoma indolente da sottoporre a sola sorveglianza (lo stadio iniziale e un pattern non aggressivo possono suggerire l’indolenza ma sono anche marker di diagnosi precoce, atta a ridurre la mortalità), sia per la limitata aggressività delle terapie, accettabile in funzione del beneficio dello screening.
Sovradiagnosi e sovratrattamento assumono importanza diversa in funzione della neoplasia oggetto di screening e questo merita una breve riflessione, anche alla luce di opinioni allarmistiche o trionfalistiche che di tanto in tanto fanno capolino creando solamente confusione.
Che la sovradiagnosi e il sovratrattamento sarebbero stati un grave problema era prevedibile per il carcinoma prostatico, per le molte condizioni favorenti. Studi autoptici mostravano elevata prevalenza di carcinoma latente (30-80% in soggetti deceduti per altra causa [1]). Il lead time è stimato nell’ordine di 10-12 anni [2]. Il PSA, test di screening, alterato nel 12-15% degli esaminati, indica la biopsia multipla della prostata, ideale per la diagnosi casuale di neoplasie latenti [3].
L’età media di screening (65 anni) è associata a un’aspettativa di vita di 15 anni (dati italiani), simile al lead time. La sovradiagnosi è stimata almeno al 50% o superiore, a seconda dell’aggressività dello screening [2,4].
In assenza di screening organizzato il poco efficiente screening spontaneo ha causato una vera “epidemia” di carcinoma in tutto il mondo occidentale. Negli USA l’incidenza è più che raddoppiata, con un picco nel 1992 e trend analoghi sono stati osservati in molti Paesi (Australia, Svezia) e anche in Italia. Ad esempio a Firenze, dove lo screening spontaneo non esisteva prima del 1990 e la biopsia si è limitata al 15-20% dei casi con indicazione [5], l’incidenza nei maschi di ≥ 55 anni è passata dal 97,9 (x 100.000) nel 1985 al 297,9 nel 2005 (+ 204%), con un chiaro trend dal 1990 [6]. L’aumento di incidenza è stato tale da far percepire subito il rischio di sovratrattamento. Si sono sperimentate alternative attendistiche (ad esempio watchful waiting) e attualmente la sorveglianza attiva (active surveillance) è comunemente adottata nei CP a presentazione più favorevole (tipicamente nei casi T1-2; Gleason < 7; PSA < 10). Tale atteggiamento conservativo è purtroppo poco impiegato nell’Europa del Sud (Italia compresa) e dell’Est e il sovratrattamento è ancora un enorme ostacolo alla raccomandazione dello screening di popolazione: pur nella evidenza di efficacia (studio ERSPC = riduzione di mortalità del 20% [3]), gli effetti negativi della sovradiagnosi e soprattutto del sovratrattamento comportano un bilancio sfavorevole in termini di qualità di vita.
Il carcinoma mammario è un’altra storia. Studi autoptici [7] hanno dimostrato prevalenza assai inferiore di carcinoma invasivo e in situ (rispettivamente 1,3% e 8,9%). L’anticipazione diagnostica della mammografia è stimata intorno a 2-3 anni [8,9]. Il tasso di biopsie (percutanee o chirurgiche) in screening è al massimo del 2-3% [9]. L’età media di screening è 60 anni e l’aspettativa di vita mediamente di 20 anni (dati italiani). Le stime di sovradiagnosi, in base ai trial randomizzati (Gothenburg e Two Counties = 1% [10]; NBSS I (Canada) = 14% [11]; NBSS II = 11% [11]; Edinburgh = 13% [11]) e a screening “di servizio” (Firenze = 0-13% [12-13]) sono abbastanza rassicuranti e non si è maisostenuto che la sovradiagnosi potesse compensare negativamente i benefici dello screening, che infatti viene comunemente raccomandato dalla CE [14]. Con lo screening non si è verificata alcuna “epidemia” di carcinoma mammario: ad esempio in Firenze, con copertura totale dal 1990, l’incidenza (50-69enni) è salita da 178,2 nel 1985 a 279,0 nel 2005 (+ 56%, assai meno del + 204% osservato per il carcinoma prostatico), con un trend sostanzialmente stabile [6]. Trend analogo è stato osservato in molti altri Paesi occidentali dopo l’implementazione di un programma nazionale. In realtà c’è qualche voce contraria, in particolare di alcuni Autori scandinavi che sostengono una sovradiagnosi molto più elevata, fino al 30-40% [15] e che lo screening possa fare “più male che bene”. Questi studi sono stati fortemente criticati dalla comunità scientifica per l’inadeguatezza del disegno statistico (ad esempio mancato aggiustamento per lead time e dubbia comparabilità delle aree geografiche a confronto) e non sono risultati convincenti.Il sovratrattamento è la regola nei casi di carcinoma mammario sovradiagnosticati: nessuno propone la sorveglianza dei carcinomi iniziali o in situ perché non si dispone di indicatori affidabili per l’identificazione delle neoplasie indolenti, perché il deciso shift verso stadi iniziali alla diagnosi è alla base della efficacia dello screening, e infine perché il trattamento sempre più conservativo adottato riduce l’impatto negativo del sovratrattamento. Consapevoli però dell’esistenza di un certo grado di sovradiagnosi e sovratrattamento, monitoriamo la terapia
adottata [16] per identificare procedure troppo aggressive (ad esempio mastectomia vs chirurgia conservativa, chirurgia ascellare nei carcinomi in situ).La sovradiagnosi di carcinoma invasivi è teoricamente possibile nello screening del carcinoma della cervice uterina (ad esempio è sostenibile che un carcinoma cervicale stadio Ia in una donna di 65 anni al suo primo Pap test sia sovradiagnosticato), ma di fatto ogni eccesso da sovradiagnosi viene cancellato dalla grossolana riduzione di incidenza dovuta alla bonifica delle displasie cervicali, il reale meccanismo per cui lo screening è efficace, ben evidente i tutti i Paesi dove lo screening è adottato da oltre 30 anni. La facile comunicazione alla donna della innocuità di queste lesioni una volta trattate rende minimo l’impatto psicologico della consapevolezza di malattia, comune invece in caso di carcinoma invasivo.
Il sovratrattamento invece è realtà importante, anche se riguarda lesioni precancerose (carcinoma in situ e displasie gravi). Nonostante poche di queste lesioni siano destinate a evolvere in carcinoma, l’impossibilità di identificarle e la limitata invasività della terapia (conizzazione, resezione con ansa, spesso ambulatoriali o in day hospital e con restitutio ad integrum dell’anatomia) rendono accettabile una quota di sovratrattamento probabilmente attorno al 70-80%. Caso abbastanza analogo è quello dello screening del carcinoma colorettale. Anche qui non si può escludere la sovradiagnosi di forme indolenti, ma anche questo è cancellato dalla diminuzione di incidenza conseguente alla bonifica delle lesioni precancerose (adenomi). Tale bonifica è importante sia per lo screening endoscopico, anch’esso raccomandato ma di limitata diffusione [17] per la bassa rispondenza della popolazione, sia per il test del sangue occulto fecale (SOF), comunemente adottato: questo, ripetuto ogni 2 anni, consente la diagnosi di un numero di adenomi avanzati addirittura superiore all’endoscopia. Poca sovradiagnosi, quindi, ma certamente sovratrattamento, anche in questo caso di lesioni precancerose di cui poche sarebbero progredite fino a carcinoma ma che vengono trattate sia per la limitatezza delle terapie che per la notevole efficacia dello screening: la bonifica degli adenomi è spesso eseguita per via endoscopica ambulatoriale e i pochi casi di resezione limitata intestinale non hanno in genere sequele rilevanti.
Riassumendo, sovradiagnosi e sovratrattamento, sia pure presenti in misura non trascurabile, non giustificano dubbi sulla convenienza dei tre screening attualmente in atto nella CE e in Italia. I benefici dallo screening con mammografia, Pap test e SOF superano di gran lunga gli effetti negativi di sovradiagnosi e sovratrattamento,al momento inevitabili. Il fenomeno deve però essere monitorato per verificare eccessi, legati per lo più a protocolli di screening e trattamento inadeguati. Sovradiagnosi e sovratrattamento, invece, sono importanti al punto di controindicare lo screening di popolazione per il carcinoma prostatico.
Nonostante l’evidenza di efficacia [3], il carico in casi sovradiagnosticati e sovratrattati (48 per ogni vita salvata nello studio ERSPC) è inaccettabile. È peraltro possibile che il monitoraggio dello studio ERSPC (nel tempo il succitato rapporto 48:1 dovrebbe calare perché i carcinomi clinicamente significativi diagnosticati precocemente nel braccio di screening compaiono successivamente nel braccio di controllo) e la diffusione di scelte di sorveglianza attiva possano modificare il bilancio costi/benefici nei prossimi anni.